Nel XX secolo i meccanismi di esclusione legati ai processi d’istituzionalizzazione psichiatrica subiscono un'evoluzione differente per quanto concerne la storia italiana e il resto della storia europea. A una psichiatria europea che, a partire della fine degli anni ‘50, si apriva ai contributi della psicoanalisi, della fenomenologia e della sociologia, faceva riscontro una psichiatria italiana in larga parte arroccata su posizioni organicistiche, sull’assolutizzazione della diagnosi e sul legame – esplicito nella legge del 1904 (che ha regolato l’assistenza psichiatrica sino al 1968, disponendo il ricovero obbligatorio e privando il soggetto dei diritti civili) – tra esigenze di ordine pubblico e internamento manicomiale. Solo nel 1968 verrà approvata la legge Mariotti (che prende il nome dell’allora Ministro della Sanità), che introduceva il ricovero volontario e rendeva possibile un ricovero senza l’intervento dell’autorità giudiziaria e senza perdita dei diritti civili.
L’“arretratezza” della psichiatria italiana di quegli anni poteva essere misurata sia a partire dal rapporto tra ospedale psichiatrico e territorio, sia nella modalità di gestione dei reparti. In quegli anni in Europa si diffondeva l’esperienza della comunità terapeutica, il cui modello e punto di riferimento teorico era quello praticato in Inghilterra da Maxwell e Jones. A Gorizia, grazie a Franco Basaglia, a partire dal 1961 vi fu l’unica esperienza italiana che accolse quelle nuove indicazioni di cura. Dalla Francia, inoltre, si diffondeva in direzione della stessa Gran Bretagna e dell’Olanda la politica del “settore psichiatrico”, fondata sul principio della continuità terapeutica tra le zone del territorio e i corrispondenti reparti dell’ospedale psichiatrico, attraverso l’intervento di équipe multidisciplinari. In Italia solo ad opera di Edoardo Balduzzi vi fu un’esperienza paragonabile a Varese, mentre gli altri ospedali psichiatrici rimanevano isolati dal territorio.
Negli anni Sessanta, alle esperienze di rinnovamento della pratica psichiatrica, si susseguiranno modelli teorici che analizzano la struttura dei rapporti di potere che costituivano l'a priori della pratica psichiatrica. La psichiatria italiana finirà per legare tale studio all'analisi di altri rapporti di potere che avevano già potuto determinare all'esterno del manicomio la segregazione di un individuo come malato mentale, declinandosi come psichiatria movimentista e anti-istituzionale, e perseguendo quella radicale trasformazione delle forme di assistenza che porterà alla promulgazione della legge di riforma detta 180 e all'abolizione degli ospedali psichiatrici. La psichiatria europea (inglese in particolare) tenterà un processo di distruzione sistematica dello spazio manicomiale con un lavoro di tipo “interno”, e mirerà (nel caso dell’esperienza inglese) a trasferire al malato stesso il potere di produrre la sua follia e la verità sulla sua follia, declinandosi esclusivamente come antipsichiatria attraverso una doppia Verneinung: negazione istituzionale, negazione della malattia. Dall’antipsichiatria inglese va differenziata la lotta anti-istituzionale francese; nelle pratiche terapeutiche della psichiatria francese non vi sarà né la confusione tipica dell’antipsichiatria inglese (ma talvolta anche del movimento anti-istituzionale italiano) tra alienazione sociale e alienazione mentale né il rifiuto degli psicofarmaci nella psicosi. La psichiatria francese utilizzerà maggiormente la psicoanalisi nella cura delle psicosi; nessuna «psichiatria concreta» (Lacan) può essere elaborata senza una teoria della psicosi. Così l’etica della cura conosce in quegli anni una rivisitazione feconda; il transfert è il concetto psicoanalitico che riceve la “piegatura” più forte, in quanto smette di essere legato alla “ripetizione” per diventare la messa in discussione per ognuno del desiderio di essere lì, in ciò che si fa. È fondamentale, nella terapia delle psicosi, che le attività della vita istituzionale non rientrino nella categoria del “far finta”.
La legge italiana di riforma psichiatrica detta 180 opererà (al contrario delle altre esperienze europee) con un lavoro di trasformazione di tipo “esterno”, provocando un peculiare slittamento semantico dal concetto di psichiatria al concetto di salute mentale.
Approvata il 13 maggio 1978, raccoglieva le istanze di de-istituzionalizzazione che avevano attraversato la società italiana nei dieci anni precedenti; era centrata sulla necessità di bloccare l’accesso agli ospedali psichiatrici e di impedirne la ricostituzione di fatto negli ospedali generali. Regolamentava gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori (ricovero coatto non più in difesa dell’ordine sociale, bensì in difesa della persona malata), istituendo negli ospedali generali i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e vietando di fatto la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici. Essa non trattava invece la materia della regolamentazione e dell’organizzazione dei servizi alternativi, configurandosi come una legge “quadro” che rimandava ai piani sanitari regionali la definizione più puntuale della materia.
Con la legge 180 l’Italia si guadagna l’attenzione della ribalta internazionale. La storia della psichiatria italiana può così considerarsi un capitolo tout court della storia italiana. La legge 180 è la sua mise en âbime. Una legge che smantellava i capisaldi della psichiatria moderna, il manicomio e la pericolosità sociale, aveva trovato una concordanza di massima tra mondo scientifico e mondo politico, promuovendo una cultura della responsabilità e del rispetto verso i malati che a ben vedere lanciava una sfida. Si trattava infatti di riuscire a mettere insieme il dovere di prendersi cura del malato con il rispetto dei suoi diritti. A questa rinata “sensibilità democratica”, che proponeva il tema della “libertà” nella cultura e nella società, contribuirono innanzi tutto gli psichiatri (innegabile fu la leaderschip di Basaglia in questa “rivoluzione psichiatrica”, ma l’utilizzo degli psicofarmaci scoperti nel 1952 catalizzò la “conversione” anche degli psichiatri meno movimentisti); ma anche i cittadini democratici (emerse attenzione e sensibilità al tema della follia), i media (molti servizi giornalistici furono dedicati a questi temi) e l’editoria (che contribuì a svecchiare la cultura psichiatrica con la pubblicazione, per la Feltrinelli, della collana Psicoterapia e psichiatria clinica diretta da Pier Francesco Galli e Gaetano Benedetti e, per la Boringhieri, dell’opera integrale di Freud). Nonché infine l’azione attiva di alcuni uomini politici.
La legge 180 è detta comunemente legge Basaglia. Questo eponimo fu utilizzato in alcuni casi per denigrare la rivoluzione dell’assistenza psichiatrica determinata dalla nuova legge, in altri casi rappresentò, in risposta a questa nuova “mutazione” del legame sociale, una sorta di “nominazione”. Per dirla con Lacan, Basaglia potrebbe rappresentare un Nome del Padre, un anello che tiene insieme in un salto, in un’accelerazione senza precedenti, una cultura riduzionista e arretrata della malattia mentale e una cultura “democratica” che sogna un funzionamento sociale nuovo di fronte alla follia. È forse Basaglia uno dei “nomi” per dire del declino del patriarcato in Italia?
Complesso e articolato fu il rapporto tra psicoanalisi e movimento psichiatrico di riforma, sebbene le difficoltà e le resistenze furono ben differenti da quelle che la psicoanalisi conobbe nella prima metà del ‘900. Allora la resistenza veniva dagli psichiatri d’impostazione organicistica (titolari di una solida cultura di stampo anatomo-patologico e neurologico), da un ambiente accademico dominato dal sistema filosofico dell’idealismo di Croce e Gentile, dall’ideologia fascista, dalla chiesa cattolica.
Negli anni ’60 la psicoanalisi entra a far parte del sistema culturale italiano; domina però un indirizzo psicoanalitico che appare essere la declinazione italiana della psicologia dell’io di importazione americana.
La contestazione del ’68, che vedrà nella psicoanalisi uno strumento d’integrazione e di legittimazione della classe borghese, opererà nei suoi confronti un secco rifiuto, siglandola irrisoriamente con l’aggettivo «americana», dopo che gli anni ’20 l’avevano ripudiata come «tedesca» e, gli anni trenta l’avevano rigettata come «ebraica».
Di fronte alle critiche della contestazione studentesca, la psicoanalisi italiana esce però allo scoperto e, attrezzandosi criticamente a superare difficoltà esterne e i dissidi interni, si apre a esperienze di socializzazione alternative.
Negli anni ’70 viene così investita da una diffusa domanda sociale come effetto della crisi della politica e dell’eclissi dell’utopia rivoluzionaria. Le si pongono con pari urgenza richieste di cura, di sapere, di formazione e di salvezza. La psicoanalisi diventa dunque un sapere in “estensione” con competenza diffusa e circolazione interdisciplinare. Malgrado i fermenti e le aperture di alcune esperienze ad orientamento “freudo-marxista” (si pensi alle esperienze milanesi dell’asilo popolare autogestito di Elvio Fachinelli, dell’ambulatorio psicoanalitico nel quartiere proletario di Niguarda proposto da Enzo Morpurgo, della rivista di “analisi materialistica” Il piccolo Hans, diretta in quegli anni da Sergio Finzi, psicoanalista di formazione lacaniana), la psicoanalisi non rappresenterà mai l’orizzonte critico di riferimento del movimento psichiatrico di riforma, malgrado la partecipazione di molti psichiatri di formazione analitica al lavoro di trasformazione anti-istituzionale. La psicoanalisi è difatti completamente “forclusa” dal discorso della nuova scienza psichiatrica. In realtà la battaglia anti-istituzionale decide di lasciarsi alle spalle tutti i discorsi di tipo “tecnico” della cura.
Il percorso culturale e scientifico di Basaglia è a tal proposito paradigmatico. Dopo una prima fase fenomenologica-sartiana (che gli consentì di uscire dallo stretto ambito della psichiatria e lo indusse a ricondurre il problema della malattia mentale all’interno di una visione globale dell’uomo) e una seconda fase di sperimentazione della comunità terapeutica (fondata sul modello dell’open door e sulla democratizzazione della vita ospedaliera), lo psichiatra triestino decise di rinunciare sia alla fenomenologia sia alla comunità terapeutica, e di dislocare così completamente il suo punto di vista, scommettendo sull’allargamento del problema della malattia mentale e riposizionandolo infine in un orizzonte storico e sociologico. Occorreva dunque espellere la questione psichiatrica dall’ambito più strettamente scientifico e ospedaliero, per disvelare, in maniera sempre più netta, le sue implicazioni culturali, sociali e politiche.
La legge 180 fu un tentativo (forse l’unico nella storia della cura) di trattare “il reale” del legame sociale? Cosa intendeva dire l’aforisma di Lacan pronunciato nel Seminario XIV del 1967 (un anno prima del ’68) La logica del fantasma: “l’inconscio è la politica”? Le strutture non possono scendere in piazza contrariamente alle persone; eppure nei grandi momenti della storia le strutture si isterizzano e si istorizzano.
È forse per questo motivo che alla fine del Seminario Lacan dirà che lo smontaggio della logica del fantasma lascia apparire, alla fine del tragitto, il pensiero di una «topografia politica».
La politica e la visione politica del mondo appartengono per Lacan al discorso del maître che sappiamo essere il rovescio del discorso dell’analista. Ma Lacan distingue bene nel Seminario XVII (IlRovescio della psicoanalisi) la politica come discorso (discorso del maître) dalla politica dei discorsi. Sembrerebbe che per il movimento anti-istituzionale italiano (malgrado la vicinanza storica con questi avvenimenti della storia della psichiatria italiana ne renda difficile l’analisi), si sia trattato di una “politica” dei discorsi. Il “discorso” della nuova psichiatria italiana rinunciava a qualsiasi pretesa di scientificità e di conoscenza, una volta distrutto il luogo del discorso (il manicomio) e dissipato il sapere scientifico (la psichiatria), promuoveva come alternativa il dispendio (dépense) della lotta politica.
Per questa “rinuncia” al sapere e al soggetto della conoscenza che il movimento anti-istituzionale opera, si aprono così una serie di crolli: crolla la pretesa del discorso scientifico, crolla la figura dello psichiatra, crolla la possibilità di umanizzare l’istituzione, crolla l’internamento come esclusione, bando, invisibilità, silenzio.
Cosa può ancora insegnarci Lacan elevando la politica alla struttura di legame sociale fondamentale, forse il più fondamentale dei legami sociali? Magari questo: la politica non è un sapere, ossia “qualcosa che lega, in una relazione di rapporto, un significante S1 con un significante S2”, ma un discorso, un legame che assicura la coesistenza dei corpi dei parlanti, un legame che fa godimento: «L’intrusione nel politico può essere fatta solo riconoscendo che non c’è discorso, e non solo analitico, se non del godimento». Forse si è trattato di questo per il movimento anti-istituzionale italiano: una sperimentazione mai vista sino a quel momento, che rinunciava al sapere per saperne qualcosa in più del desiderio. Il desiderio che per Lacan è «mancanza a essere» riceve in quegli anni una nuova curvatura: «il desiderio non manca di niente» (Deleuze). Pretendere che il desiderio non manchi di niente, estenderlo dalla singolarità al campo sociale, ha forse significato trattare le relazioni e i problemi del legame sociale su un fondo di forclusione del soggetto della conoscenza, di forclusione delle “cose dell’amore” e di forclusione della contingenza?
È questa la domanda che ancora oggi, a trent’anni di distanza da questa straordinaria legge, continuiamo a porci.
Bibliografia
Valeria P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2009.
Silvia Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori opere teorie 1895-1985. Arnoldo MondadoriEditore, Milano, 1986.