Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo del 1924. La sua biografia “civile” ci riferisce che, mentre ancora frequenta la facoltà di medicina, entrato in contatto con un gruppo di studenti antifascisti, viene arrestato e resterà in carcere per sei mesi. Negli anni ’50, anni d’inizio della sua carriera psichiatrica, domina in Italia una cultura di forte impostazione neurologica e tutto ciò che è opposizione, alternativa, trova riparo sotto le insegne della fenomenologia. Basaglia muove dunque i suoi primi passi nella cultura psichiatrica alternativa fenomenologica di quegli anni, pubblicando nel 1953 un lavoro d’inconfutabile ispirazione fenomenologica: Il mondo dell’incomprensibile schizofrenico attraverso la «Daseinanalyse[1]».
La psicoanalisi, la fenomenologia precludono le carriere di chi non aderisce alla cultura dominante di stampo neurologico e indirizzano al lavoro nei manicomi; così nel 1961 Basaglia sarà catapultato dalla clinica delle malattie nervose e mentali dell’università di Padova al lager del manicomio di Gorizia. È dunque da un manicomio di provincia che comincerà, come per Sergio Piro (l’altro importante psichiatra italiano che opererà con la stessa passione al Sud Italia) la “rivoluzione psichiatrica”.
Il percorso di Basaglia è la rinuncia al “discorso dell’università” che si realizza in due momenti successivi. In un primo momento vi è la rinuncia alla carriera accademica presso la clinica per malattie nervose e mentali di Padova (dove è stato assistente per tredici anni) a cui Basaglia oppone la lezione filosofica della fenomenologia nella sua declinazione sartriana (in clinica il suo professore lo chiamava sarcasticamente il “filosofo”). L’antideterminismo, l’antinosografismo, l’antimeccanicismo della fenomenologia rappresenteranno l’alternativa vera alla cultura di provenienza, ma giunto a Gorizia, il “filosofo”, lettore di Minkowski, Merleau-Ponty, Sartre, lascia cadere anche la declinazione filosofica del “discorso dell’università” di fronte al “reale” dell’istituzione manicomiale.
Basaglia sceglie dunque di abbandonare la fenomenologia per dedicarsi alla trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica secondo il modello anglosassone di Maxwell Jones.
Questo passaggio dalla psichiatria fenomenologica alla terapia istituzionale aprirà a un ulteriore rottura e separazione, lasciando intravedere un divario, tutto italiano, tra sapere clinico e pratica politica. Negli anni ‘60 difatti, mentre il movimento riformatore della psichiatria italiana gravita intorno alla politica di “settore” (come nell’esperienza di Enrico Balduzzi a Varese), aderendo così a una visione “riformista” dell’istituzione manicomiale, Franco Basaglia in occasione del primo congresso di psichiatria sociale tenutosi a Londra esprime una posizione più radicale che coincide con la sua «utopia» di distruzione dell’ospedale psichiatrico. La sua nuova concezione lo spinge al di là della terapia istituzionale e della comunità terapeutica (che aveva inizialmente preso in considerazione), perché queste “alternative” sono comunque il prodotto di una visione “riformista” dell’istituzione manicomiale. Certamente la violenza da lui stesso subita (penalizzato da un esilio scientifico e umano) deve averlo aiutato nella messa a punto di quel concetto di esclusione che resterà il perno di tutta la sua riflessione psichiatrica e politica[2]. Al convegno franco-italiano di Courchevel nel marzo 1968 così si esprime: «È anche comprensibile che là dove il riformismo psichiatrico è più armoniosamente inserito in un pacifico evolversi della vita civile di un paese, a antiche tradizioni democratiche esso tende ad assumere aspetti di riformismo graduale, mentre al contrario è giusto attendersi una radicalizzazione della punta più avanzata del rinnovamento istituzionale laddove esiste un forte contrasto fra quest’ultimo e il prevalente ritardo politico e “civile” del paese»[3].
Basaglia opporrà al discorso del maître, al principio di autorità, il principio di libertà («il principio di libertà riuscirà a scalzare quello di autorità»), declinando così, in maniera né ingenua né avventata (non negò mai l’esistenza della malattia mentale come Laing o Cooper), il rapporto tra psicosi e libertà. Tale rapporto ha avuto, nell’ambito della sua pratica, accenti e momenti di tipo “surrealista” («Abbiamo usato tutti i mezzi che il sistema ci dava: dalla radio alla televisione, da Marco Cavallo [una sorta di cavallo di Troia costruito nel manicomio di Trieste], al volo, alle infinite conferenze che siamo andati a fare un po’ ovunque. Probabilmente abbiamo fatto molte cose che possono essere considerate propaganda, atteggiamenti da vedette, argomenti tanto cari ai nostri detrattori di destra e di sinistra»[4]), ma più profondamente mira al cuore dell’”etica” della cura, portando allo zenith una questione cruciale per il pensiero psichiatrico: il folle è libero?
Basaglia ritiene difatti che lo psichiatra non debba mai sottrarre al malato il difficile compito di essere libero ed esprime così questa sua visione: «Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercè del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non sapere cosa fare della sua libertà»[5].
Nel Discorso sulla causalità psichica Lacan ricorda che la libertà ha la follia come limite: «E l’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come limite della sua libertà». Il soggetto possiede come libertà la sua divisione rispetto ai significanti che lo comandano ai quali, come ricorda Melman[6], può sempre disobbedire o prendere le distanze, per riflettere o decidere altrimenti; ma per lo psicotico questo non è possibile. In quel testo del 1946 Lacan, rispondendo a Henry Ey e opponendosi a tutte le tendenze psichiatriche del tempo, sostiene che la follia non è affatto la perdita della libertà. Per lo psicanalista francese lo psicotico è l’uomo libero par excellence, colui che si emancipa da tutti i vincoli (come ad esempio testimoniano i deliri genealogici o di identificazione, le amnesie d’identità e il transessualismo e, in maniera paradigmatica, il delirio di Schreber) attraverso una libertà che lo solleva dalla particolarità, dalla castrazione attraverso la quale ciascuno di noi deve passare. Castrazione intesa da Lacan come castrazione simbolica, come il prezzo da pagare per entrare nell’ordine del linguaggio, alienazione simbolica fondamentale così descritta nel 1958 nella Questione preliminare: «Il soggetto d’altra parte entra nel gioco come morto, ma è come vivente che lo giocherà: è dalla sua vita che deve prendere gli elementi del gioco che dovrà dichiarare a momento debito»[7].
Pertanto sebbene ogni atto delirante sia dotato di senso, lo psicotico, non accedendo alla divisione soggettiva operata dal significante, non può impadronirsi del senso del suo atto. Senso che il soggetto avverte esserci ma non sa dove e quale sia; da qui la sua perplessità: sapere che c’è un senso ma nello stesso tempo sentire che gli sfugge. Nel testo del 1946 Lacan analizzerà questa dimensione della psicosi siglandola come «insondabile decisione dell’essere», una sorta di «inafferrabile consenso del soggetto» come sostiene Miller, che è il quid dell’esperienza psicotica: «Credo infine che rigettando la causalità della follia in quell’insondabile decisione dell’essere in cui questo comprende o misconosce la propria liberazione, in quel tranello del destino che lo inganna su una libertà che non ha affatto conquistato, non faccio altro che formulare la legge del nostro divenire, com’è espressa dall’antica formula: Genoi, oioV essi»[8].
In una oscillazione interessante Basaglia psicopatologo degli anni ’60 esprime con la nozione di “inautenticità” una posizione non lontana da quella lacaniana di “misconoscimento”. Vediamo in questo passo di un testo del 1966 (Deliri primari e deliri secondari e problemi fenomenologici di inquadramento[9]) come Basaglia affronta il tema della libertà nella psicosi. Lo psicotico è colui che : «compie il tentativo di rompere l’ordine prevalente, e di contraddire la realtà presente, fallendo in questo tentativo e mascherando nel delirio stesso il suo fallimento: il delirante cronico è colui che è riuscito, a prezzo di mancare il proprio Dasein, a costruire enormi barriere tra sé e il mondo, ha cioè costruito la cittadella dell’utopia».
“Utopia” sarà una parola importante per Basaglia che dall’ambito psicopatologico del delirio transiterà nel campo antropologico della lotta antistituzionale. La nozione di “misconoscimento”che emerge nella Tesi di dottorato di Lacan, di un Lacan che non è ancora psicanalista ma psichiatra fenomenologo, introduce alla questione dell’”ideale”. È attraverso l’identificazione all’ideale, immaginaria e senza mediazione (“misconoscimento”) che il soggetto realizza la propria libertà pagandone il prezzo con il delirio. Dunque una serie di coppie utopia/ideale, inautenticità/misconoscimento, avvicinano il Lacan psichiatra al Basaglia psichiatra, entrambi impegnati a sostenere una concezione non deficitaria e non segregativa della psicosi.
Corps, regard et silence. L’énigme de la subjectivité en psichiatrie è il titolo di uno dei saggi più significativi di Basaglia che esce nel 1965 nel numero 1 de «L’Evolution Psychiatrique». Il corpo, lo sguardo, il silenzio, analizzano la “struttura “ del vivere psicotico: « Il suo linguaggio [dello psicotico] non nasce da un silenzio-distanza dove egli abbia potuto impadronirsi di sé ed opporsi al mondo: gli altri lo hanno derubato a sua insaputa, lo hanno saccheggiato impadronendosi della sua immagine, rubandolo a se stesso senza lasciargli la libertà di costituirsi come oggetto. Ciò significa che il malato non può vivere lo sguardo d’altri come sua possibilità di essere oggetto per altri, pur mantenendo in sé la possibilità della sua alterità: sotto l’influsso di quella aggressione, non gli resta altro che essere oggetto per altri, aderire, abbandonarsi – senza distanza, senza intervalli – a questa presa di possesso che altri attuano in lui, senza dubbi, senza incertezze sull’irreversibilità di questa situazione delirante [...] Egli non ha più in sé alcun intervallo: non c’è distanza fra lui e lo sguardo d’altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare a essere una scomposizione a più piani di sé[10]». Lo sguardo e il silenzio tematizzano l’esistenza tout court e non solo l’esistenza psicotica, perché poco prima, nello stesso saggio, così scrive lo psichiatra italiano: «In presenza dello sguardo altrui io non avverto gli occhi che mi guardano, ma vivo soltanto il mio essere vulnerabile, il mio essere scoperto, esposto, smascherato a me stesso in un sentimento di vergogna e di angoscia che mi distanzia e mi difende dall’invasione dell’altro [...]. Un secondo elemento necessario allo svolgersi della mia distanza dagli altri, intervallo indispensabile alla difesa della mia intimità, è il silenzio come intenzionalità, come modalità di prendere e quindi di essere preso dall’altro [...]. Quindi il silenzio, come lo sguardo, sarà costitutivo del mio rapporto con altri»[11].
Per la clinica psicoanalitica è evidente che è dall’altro che ci costituiamo, è l’altro che ci costituisce. Solo se la parola dell’altro mi giunge o non mi giunge posso entrare nell’ordine simbolico. Nel campo fenomenologico tutto parte al contrario dal soggetto costituente, anche se la posizione di Husserl sottolinea la co-costituzione dell’ipseità e dell’alterità. La soggettività costituente significa per la fenomenologia che non è l’altro che mi costituisce, l’altro inteso come altro luogo e non solo come altra persona. In questo scritto del 1965 Basaglia fa però inceppare l’intenzionalità di marca husserliana con la “presa” da parte dell’altro, lasciando intendere quell’alienazione fondamentale che ci istituisce, in quanto soggetti “fissati” dal desiderio dell’altro. Vi è qui dunque un aspetto importante del Basaglia “clinico”, che parte da una clinica della singolarità per farsi così guidare, negli anni a venire, verso l’analisi sociale del “corpo istituzionale”.
La “liberazione” è un significante fondamentale che guida il lavoro di Basaglia. Lo psicopatologo di un tempo, all’epoca della “rivoluzione psichiatrica”, non tiene più conto del legame inestricabile che la psicosi intrattiene con il misconoscimento, perché una dottrina materialistica di fondo, il marxismo, lo guiderà ora nel suo “umanesimo critico”[12].
Negli anni che preparano al ‘68 Basaglia declina difatti una vocazione umanistica alla liberazione dall’alienazione, congiungendo il primo tempo della sua riflessione, quello fenomenologico, a quello politico d’ispirazione marxista. Questa vocazione aveva assunto, inizialmente, la dimensione dell’incontro con la soggettività del malato così come proposta dalla fenomenologia; in un secondo tempo politico si era declinata come critica radicale all’istituzione totalitaria del manicomio e più in generale del “corpo” istituzionale.
Basaglia rinviene nella dottrina marxista gli strumenti teorici e pratici indispensabili per correggere l’idealismo dei presupposti fenomenologici precedenti. Così la genealogia della follia (che Foucault descriverà in Storia della follia nel partage ragione/sragione) è per Basaglia in un movimento di classe che espelle i folli con un meccanismo di esclusione sociale.
Basaglia legge una continuità politica e epistemologica tra la teoria della psichiatria positivista e la pratica istituzionale del manicomio. Nella lettura dell’umanesimo critico di Basaglia l’istituzione entra in una relazione di alienazione con il corpo del soggetto, di spossessamento del corpo proprio nel corpo dell’Altro, e l’individualità non è mai solo un dato ma un «bene da conquistare»[13]. L’Altro di Basaglia non è l’Altro del linguaggio ma l’Altro dello sguardo che devasta entrando nel corpo, sguardo panottico di un’istituzione totale (come il carcere del resto) dove la “vita patologica” è vita che è diventata totalmente visibile. In altri termini la vita è intrappolata nel reale e non può usufruire della penombra che la pellicola del simbolico crea intorno a un’esistenza e rende i soggetti in qualche modo invisibili. Il corpo, per il soggetto, diventa il suo corpo a partire da una relazione fondamentale con ciò che Lacan chiama il «corpo del simbolico»[14]. L’istituzione totale in quella profanazione del self (intesa da Goffman come processo di disculturazione, di perdita di ruolo, delle proprietà personali, del corredo della propria identità, dell’esposizione contaminante, della rottura dell’economia d’azione) riproduce iatrogenamente la struttura psicotica del delirio di essere guardati di cui lo psicotico soffre; quest’ultimo, non lasciando cadere l’oggetto-sguardo dal lato dell’Altro, si sente guardato nel suo corpo da tutti i lati. Lacan nel Seminario X L’Angoscia riporterà il disegno (raccolto da Jean Bobon) di una paziente schizofrenica che era solita dire :”io sono sempre vista”( didascalia della tavola del disegno riportata da Lacan nel Seminario)[15]. Per questo scollamento simbolico Basaglia guarderà al manicomio non più come a un luogo clinico di sapere e cura, ma come a un luogo a scarsa ricaduta simbolica, come a un dispositivo immunitario dove i propri diritti civili vengono negati e si realizzano quelli che lo psichiatra triestino chiamerà successivamente “crimini di pace”.
È proprio dunque dal corpo, dalla “nuda vita” (Agamben), dallo sguardo che Basaglia muove i suoi primi passi nella “sperimentazione politica” che lo porterà alla chiusura dei manicomi. Questi aspetti ci aprono a questioni del contemporaneo estremo. Si può parlare di un’invisibilità dei soggetti che deriva dalla pellicola del simbolico? Il manicomio, ma anche la “biopolitica” dei campi di sterminio nazista, mostreranno che l’altro ridotto al reale del proprio corpo è un altro non più ascrivibile al piano simbolico. L’altro declassato a puro corpo funge da contenitore immaginario di quanto di non desiderabile popoli le vite degli altri. Così si può fare dell’altro, ridotto al puro reale del corpo, il ricettacolo di un mondo immaginario pieno di ansie e paure, contando su una distanza sociale che spezza il legame di responsabilità degl’individui e priva l’altro della sua soggettività. Questo funzionamento consente di ascrivere il proprio danno esistenziale a un altro da sé immaginario, un piccolo altro categoriale, per poter sopportare meglio la propria angoscia. È quello che è accaduto difatti con la “biopolitica” dei campi di sterminio nazista.
In questo momento di viraggio verso il “politico” s’inserisce anche la critica di Basaglia nei confronti della psicoanalisi. Basaglia aderisce alla severità del giudizio sartriano su Freud e alla versione stereotipata della psicoanalisi che il filosofo francese espone ne L’essere e il nulla.
In quegli anni (in maniera non sempre consapevole) è una certa psicoanalisi, quella post-freudiana, a essere posta sul banco d’accusa. Come osserva Recalcati[16] esiste un tripode Sartre, Lacan, Basaglia in cui Sartre funge da anello di connessione per le riflessioni degl’altri due, configurando quel filone critico che ha come preso di mira il sottrarre la soggettività da quel determinismo, epistemologico e etico, che informa la psicoanalisi post-freudiana. Questa declinazione critica sarà esplicitamente chiarita solo da Lacan che condurrà il suo attacco all’Ego-psychology nominandolo con un sintagma: «ritorno a Freud». Qui vi è punto importante. Per Lacan il problema sta nella cancellazione dell’inconscio operata dalla Ego-psychology. Si tratta dunque di «essere giusti con Freud» (come dirà lo stesso Foucault), non dunque di rinnegare Freud ma semmai la “deriva” dei post-freudiani. Con la concezione dell’ «inconscio strutturato come un linguaggio», Lacan mostrerà poi il legame inestricabile che esiste tra interiorità e esteriorità (extimité), tra individuale e sociale, tra desiderio e alienazione nell’Altro. In quest’ultimo caso Lacan supera la radicalizzazione dell’opposizione tra bisogno e desiderio messa in campo da Sartre e dallo stesso Basaglia, essendo per Lacan il desiderio indissolubilmente legato al desiderio dell’Altro, non solipsistico o individualista ma inevitabilmente sociale (“il desiderio è il desiderio dell’Altro”). Al contrario le altre letture critiche al post-freudismo (compresa quella di Basaglia) sembrano talvolta opporsi tout court alla psicoanalisi in nome di una visione interamente ideologica, non tenendo conto così della revisione avanzata dell’inconscio proposta da Lacan.
Il confronto critico di Basaglia con la psicoanalisi post-freudiana si declinerà comunque in un doppio giudizio[17]. Da un lato Basaglia colloca Freud dalla parte di Binswanger, ponendo l’antropoanalisi e la psicoanalisi da uno stesso lato. Il primo giudizio basagliano su Freud mette l’accento sulla dimensione di significato e di storicità del sintomo che la psicoanalisi ha il merito di aver introdotto contro l’impostazione meccanicistico-organicista della psichiatria tradizionale, riconoscendo così alla dottrina freudiana lo statuto di «scienza rivoluzionaria». Basaglia coglie il passo umanistico di Freud nel sottrarre il sintomo al determinismo meccanicistico delle scienze positivistiche, introducendo la dimensione del senso, del significato storico.
Dall’altro lato parte tuttavia una critica dura, un’accusa politica, che, in qualche modo, è la stessa mossa alla fenomenologia. Come la psichiatria fenomenologica, la psicoanalisi è un sapere incapace di incidere sulla vita istituzionale, ed entrambe, psicoanalisi e fenomenologia, non si oppongono alla tendenza antitrasformativa dell’asilo, contribuendo così a confinare la malattia mentale in una zona disgiunta dal corpo sociale.
In questi anni soprattutto nella critica sartriana e di Deleuze e Guattari alla psicoanalisi prevale lo smascheramento del carattere ideologico della psicoanalisi che la lettura basagliana riprende.
I punti più incisivi della riflessione di Basaglia sulla psicoanalisi mettono in tensione, in una lettura critica dell’ideologia sommersa della psicoanalisi, la nozione di conflitto, lo stile confessionale dell’ascolto analitico, la finalità terapeutica, l’interpretazione analitica, la nozione di temporalità, la nozione di desiderio (qui Basaglia in accordo con Sartre oppone il carattere primario del bisogno a quello artificiale del desiderio)[18].
L’umanesimo critico di Basaglia oppone le coppie causalità e senso, determinismo e libertà, istituzione e corpo, passività e attività, alienazione e liberazione, autentico e non autentico, interno e esterno, mancando di pensare al nesso che già in Freud avvolge questi dualismi intrecciandoli topologicamente come in una banda di Moebius (è questo «l’enigma della soggettività»!). È dunque nell’opzione dell’alternativa frontale che Basaglia conduce questa lettura critica. In questi anni Basaglia è difatti lo psichiatra ideologicamente orientato, figlio di un’epoca che metteva in primo piano i meccanismi dell’esclusione sociale, i condizionamenti dell’organizzazione familiare e del gruppo di appartenenza, le sollecitazioni culturali del contesto e le contingenze storiche e politiche[19].
Ma la storia politica d’arrivo di Basaglia, la chiusura dei manicomi e la legge 180, rilegge après coup la storia politica di partenza. Lo psichiatra indignato di fronte al manicomio è determinato dalla sua storia antifascista e dalla nozione di uomo libero della Costituzione italiana del dopoguerra che dall’antifascismo discende. In questo Basaglia è una storia italiana. Uomo d’eccezione, in una nazione che ha bisogno di eroi («Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi» ci ricorda Berthold Brecht) conduce, inizialmente in maniera solitaria, una ricerca scientifica e politica che lo condurrà a un ripensamento radicale della relazione medico-paziente. Questa lavorazione reale, materiale, che parte da una profonda immersione clinica, avrà ricaduta simbolica, farà atto con una legge (la legge 180) a cui Basaglia affida la sua questione: a quali condizioni libertà e diritti della persona malata possono stare insieme?
[1] F.Basaglia, Il mondo dell’«incomprensibile» schizofrenico attraverso la «Daseinsanalyse». Presentazione di un caso clinico, in«Giornale di Psichiatria e di Neuropatologia», 81, f.3, 1953.
[2] Cfr.V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, il Mulino, 2009, Bologna.
[3] F. Basaglia, Conversazione su un’esperienza comunitaria: la comunità terapeutica di Gorizia, Relazione del gruppo curante dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia all’incontro italo-francese di Courchevel (Francia), 1968, in «Note e Riviste di Psichiatria», LXI, f. I, 1968.
[4] F. Basaglia, Conversazione con Venturini, in E. Venturini (a cura di), Il Giardino dei gelsi, Einaudi, Torino, 1979, pp. 211-12
[5]F. Basaglia, Corpo e istituzione. Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale, in F. Basaglia, L’utopia della realtà (a cura di F.O. Basaglia), Einaudi, Torino, 2005, pp. 105-106.
[6] C. Melman, Intervento all’Associazione Lacaniana di Napoli, 29-30 maggio 2009.
[7] J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti (a cura di G. Contri), Einaudi, Torino, 1976, vol. II, p. 548.
[8] J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, cit. vol. I. p. 171.
[9] F. Basaglia, Deliri primari e deliri secondari e problemi fenomenologici di inquadramento, con A. Pirella, Relazione al Simposio sui deliri primari e secondari al XXIX Congresso nazionale di psichiatria, Pisa, maggio 1966, Atti del Convegno.
[10] F. Basaglia, Corpo, sguardo, silenzio, L’enigma della soggettività in psichiatria, in F. Basaglia, L’utopia della realtà (a cura di F.O. Basaglia), Einaudi, Torino, 2005, pp. 37-38.
[11] F. Basaglia, Corpo, sguardo, silenzio, L’enigma della soggettività in psichiatria, cit. pag. 33
[12] Cfr. M.Recalcati, Pensare il confine. Il nodo Basaglia-Sartre-Lacan, in F. Leoni (a cura di) Franco Basaglia. Un laboratorio italiano), Bruno Mondadori, Milano, 2011, pp. 54-55-56-57.
[13] F. Basaglia, Ansia e malafede. La condizione umana del nevrotico, in F. Basaglia, L’utopia della realtà (a cura di F.O. Basaglia), Einaudi, Torino, 2005, pag. 5.
[14] Cfr. G. Mierolo, Basaglia, Foucault e il potere psichiatrico, in F. Leoni (a cura di) Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, Bruno Mondadori, Milano, 2011.
[15] J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963) tr. it. Einaudi, Torino, 2007, p.153.
[16] Cfr. M.Recalcati, Pensare il confine. Il nodo Basaglia-Sartre-Lacan, in Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, cit. pag. 49.
[17]Cfr. M.Recalcati, Pensare il confine. Il nodo Basaglia-Sartre-Lacan, cit., pp. 50-51.
[18] Ivi, pp.57-58-59-60-61
[19]Cfr. M. Colucci, Lo scandalo Basaglia, in Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, cit. pag. 22.