P.Piunti : “La legge 180 in Italia : la psichiatria dietro il paravento”

In Italia, fino al 13 maggio 1978 l’assistenza psichiatrica è stata regolata da un complesso di leggi che si definivano come :” Disposizioni e regolamento sui manicomi e sugli alienati” e che contenevano ben cinque disposizioni legislative articolate nel corso di diversi anni, a partire dal 14 febbraio 1904 per finire con il 18 marzo 1968.

E’ interessante notare che nell’insieme di tali leggi ci si riferisce alla malattia mentale in termini di “alienazione” e che le norme ivi contenute sembravano rispondere prioritariamente ad esigenze di “protezione,  custodia e sorveglianza “ dei cosiddetti “alienati”, ossia di coloro che presentavano un disturbo psichico.  Nel 1968 viene quindi introdotto, per la prima volta, il concetto di “ricovero volontario” a scopo di accertamento e cura, attribuendo  così alla malattia mentale una qualche connotazione sanitaria e giuridica. Sarà poi il 13 maggio 1978 che prenderà il via una legge (n° 180) in cui saranno contenute le nuove norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari, volontari e obbligatori, quasi in contemporanea con la legge sulla Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (più nota come legge di Riforma Sanitaria)(1).

La principale innovazione consisterà nello stabilire che di norma tutti “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”, anche se “possono essere disposti dall’Autorità Sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori” tramite un “provvedimento del Sindaco, nella sua qualità di Autorità Sanitaria locale, su proposta motivata di un medico”. Tutto questo dovrà avvenire “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione”.   Nell’articolo 2 della legge, in particolare, si dispone che “le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti  interventi  terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo, e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere”. Nell’articolo 3 viene invece sancita la competenza del Giudice Tutelare per quel che riguarda la ratifica delle disposizioni di trattamento obbligatorio emesse dal Sindaco. La funzione specifica del Giudice Tutelare è quindi, in questi casi, di tutela del malato e di controllo della legittimità dell’operato del Sindaco.  E’ significativo qui lo spazio riconosciuto a questa figura giuridica piuttosto che a quella del Pretore o dell’autorità di pubblica sicurezza, in altre parole si sottolinea la tutela dei diritti del cittadino invece che confermare le precedenti disposizioni in termini di pericolosità sociale del malato.

Già in queste poche righe sono contenuti  alcuni dei principali punti cardine della riforma che, a partire da quella data, è all’origine di un cambiamento epocale per la psichiatria italiana, una specie di ”rivoluzione giacobina” in campo psichiatrico, in un paese, tra l’altro in cui storicamente si vivevano le grandi turbolenze della vita politica e sociale, fino alle sue forme più estreme rappresentate dal  terrorismo.

Certo le idee che ne erano alla base e che l’hanno sostenuta fino alle sue conseguenze più recenti, su cui cercherò poi di soffermarmi, non erano solo italiane. Sia nei paesi anglosassoni  sia in Francia, (cui lo stesso  Basaglia, principale artefice della riforma, rivolgeva in particolare la sua attenzione) si stavano inaugurando nuove sperimentazioni cliniche che tendevano a ridimensionare la portata delle grandi istituzioni manicomiali, senza però mai ipotizzare la loro definitiva sparizione. Nell’articolo 7 della legge 180, invece, si sancisce chiaramente che “è in ogni caso vietato costruire nuovi Ospedali Psichiatrici” mentre per i casi che comportino la necessità di una degenza ospedaliera  le Regioni sono tenute ad individuare “gli ospedali generali nei quali devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura”, servizi che “non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15”.

La legge 180 quindi si delinea principalmente come sparizione dei tradizionali luoghi di cura che vengono in parte  imputati di compromettere se non determinare il  decorso stesso della psicopatologia, nonché la prognosi della malattia, perché di questo ancora si tratta, nonostante l’accento posto alle cause sociali delle sue manifestazioni.   Al loro posto cominciano a prendere forma i cosiddetti “Servizi territoriali”, in parte

affini alle realtà comprese nella “psichiatria di settore” propria della Francia o a quella che nei Paesi anglo sassoni si definisce “psichiatria di comunità”. Sarà questo il principale campo di intervento della psichiatria che  dovrà mantenere uno stretto collegamento con i luoghi di vita del paziente anche attraverso una cosiddetta “integrazione” con gli altri servizi “socio-sanitari”.

Già a quattro anni di distanza dalla promulgazione della legge si potevano reperire ( in un libro di testo utilizzato come manuale di studio in psichiatria) le principali critiche agli assunti fondanti della stessa e soprattutto alla sua mancata applicazione. A tutt’oggi si possono condividere le medesime osservazioni a questioni mai risolte e solo mascherate o sepolte prima dall’ideologia e poi dalle regole del  mercato.

Perché allora l’interesse della psicanalisi riguardo un fenomeno che, almeno nei suoi presupposti originari,  sembra  non tenerne conto (come, del resto, anche di tutti i suoi antecedenti storici )?

A questo punto vorrei  soffermarmi su alcuni aspetti  che mi sembrano caratterizzare dei tratti fondanti della riforma e del suo intreccio con altre questioni  che ritornano in vario modo nel discorso psicanalitico nel suo rapporto con la psichiatria, così come ci è  stato riproposto da Lacan.

Così  già in prima istanza la legge 180 ha rimesso in discussione la questione dei luoghi, nei suoi aspetti più consolidati dal tempo in campo psichiatrico, più specificamente rappresentati dalle istituzioni manicomiali. Qui cominciano ad entrare in gioco molti grandi temi sociali che riguardano principalmente il rapporto della psichiatria con il potere politico di ciascun paese e che in Italia, in particolare, è stato rappresentato da un passato totalitario ancora non molto lontano. Ma senza voler entrare in merito a quest’ultimo,( che sicuramente è comunque implicato nell’accanimento anti istituzionale della riforma), si può già partire da alcune delle sue principali conseguenze, ossia la trasformazione dei luoghi di cura, fino alle sue conseguenze più estreme, cioè la loro totale sparizione.  Ma è avvenuto proprio questo ?

1)      La cura dietro il paravento : si potrebbe intitolare così l’avvio della riforma, almeno per quanto è accaduto in alcune realtà, come quella romana, che si è trovata ad accogliere malati e operatori nel loro esodo dagli ospedali psichiatrici. Ciascun Servizio Territoriale, così come chiamato in causa dalla nuova legge, è nato nel nulla di situazioni che non solo non avevano luoghi fisici già designati a tal fine ma nemmeno persone preparate ad occuparli, ad eccezione di alcuni pionieri del nuovo corso che avevano già vissuto l’esperienza istituzionale precedente ed avevano collaborato alla sua successiva evoluzione, nei modi più disparati. E’ stato proprio in virtù del loro entusiasmo iniziale e di quanto  riuscivano  a trasmettere  ai primi appassionati  seguaci che si è potuta avviare un’esperienza che è rimasta unica nella storia della psichiatria, (almeno in Italia) con tutte le sue possibili conseguenze, comprese quelle più catastrofiche per la nostra clinica, di cui possiamo essere ancora testimoni. Perché proprio il paravento ? Forse è stato del tutto casuale ( in quanto si lavorava tutti insieme in una  grande sala presa in prestito nell’ambito di un complesso ospedaliero destinato alla cura delle malattie infettive….) ma in quel periodo il paravento era l’unico mezzo messo a disposizione di medici, psicologi, infermieri e malati per tutelare qualcosa che si stava tentando di ricreare dopo il ”terremoto” subito (o condiviso) : uno spazio per la clinica. Ma  era necessario ?

Il “paravento” è definito nel dizionario come un “mobile costituito da un certo numero di telai ricoperti di stoffa  o di carta, collegati mediante cerniere, in modo da fornire una parete variamente adattabile e orientabile , a seconda delle esigenze” . Il prefisso “para” che lo compone viene descritto con il “significato generico di protezione o di riparo”. Quindi, abbattute le mura, o meglio resi inaccessibili “per legge” i luoghi che circoscrivevano ( con delle modalità che richiamano la “presa della Bastiglia” nelle sue accezioni più simboliche) si ricorre al “paravento” in questi  “luoghi di cura” recuperati  in qualche modo nel marasma dei nuovi tempi. Ora si tratta di un luogo “mobile” o in via di trasformazione, messo maldestramente al “riparo” da un mezzo anch’esso precario e ripreso dalla pratica medica tradizionale (sono proprio gli stessi  “paraventi” che vengono utilizzati negli studi medici per tutelare la riservatezza del malato durante la visita, per es. mentre si sta svestendo). All’interno di questi spazi  così circoscritti ( o comunque in situazioni analoghe) si è avviato un processo che è presente tutt’ora, in varia forma, nel modo di praticare la clinica psichiatrica in Italia e che, a mio avviso, ha come epigoni estremi l’attuale predominanza cognitivo- farmacologica nell’impostazione  delle cure all’interno degli stessi Servizi Territoriali.

Se quindi, come scrive Melman , sulla scia di Lacan “ il luogo del dire è proprio ciò che costituisce per ognuno di noi la propria casa” e se “quello che possiamo legittimamente chiamare il luogo”, continua l’autore,”è la faglia aperta nel Grande Altro  in cui trova riparo la nostra soggettività “ (2)di quali luoghi si può parlare nel caso della legge 180, al di là di ciò che ha animato i suoi pionieri e dell’ambientazione  storico-politica dell’epoca ?

Forse si potrebbe utilizzare la definizione di Lacan del seminario sulle psicosi riguardo il meccanismo dell’allucinazione e della forclusione più in generale, cioè  come “ quello che è stato forcluso nel simbolico ritorna nel reale”(3) rispetto a quanto è poi accaduto nell’ambito di un fenomeno di misconoscimento collettivo come quello che attribuisce una soggettività assoluta al malato di mente, gli preclude gli abituali luoghi di cura (fin troppo circoscritti e definiti) riconoscendogli il “diritto” alla libertà che una società “malata” e “sorda”  rispetto alle sue esigenze gli aveva negato, causandogli invece  danni e disturbi dalle inevitabili conseguenze.  Nel rianalizzare questo fenomeno si potrebbero anche avvertire degli echi di quanto assistiamo ora più in generale nel nostro vivere contemporaneo, cioè in quello che riconosciamo come “paranoia comune” (es. i fenomeni di rivendicazione collettiva o di attribuzione di un danno subito), così che forse lo potremmo considerare  come un crogiuolo di esperienze utili per l’analisi di altri fenomeni sociali che prescindono dall’applicazione di una legge rimasta così specifica per la situazione italiana.

Tornando alla questione dei luoghi, ma non è proprio della psicosi, almeno una delle sue proprietà, la dimensione di uno spazio infinito ? Se invece un luogo è una “porzione di spazio idealmente e materialmente delimitata”(come da definizione di un dizionario della lingua italiana)che tipo di spazio viene proposto (o anche imposto) dal “paravento” della nuova psichiatria ? E’ forse solo l’ultimo baluardo utilizzato pietosamente per velare un dire sempre più esposto al discorso comune e quindi senza più faglie da ritagliare nel grande Altro sociale?

Forse è proprio a partire da qui che questa riforma così controversa e atipica (nel panorama psichiatrico internazionale) ha dovuto fare i conti, in maniera sempre più intensa,  con il discorso psicanalitico e con le sue conseguenze, anche più immediate, nonostante la negazione iniziale di qualsiasi approccio alla questione che non passasse per un cambiamento sociale inteso, in questo caso, anche come negazione o meglio preclusione (in quanto divieto di accesso)dei luoghi di cura già esistenti e non più riconosciuti come tali.  C’è qualcosa in questa “preclusione” che ne riecheggia un’altra ben nota sul piano clinico, ossia la forclusione del Nome del Padre propria delle psicosi. In questo caso però l’accesso al Simbolico non è messo in discussione, mentre si mette in discussione o, meglio, si ricusa qualcosa che  il Simbolico stesso ha prodotto.  La modalità con cui questo avviene ha la caratteristica di tutte le rivoluzioni nella fase in cui intendono abbattere le dittature, ossia la demolizione  dei palazzi del potere o la loro occupazione. Nel caso della legge 180 il processo di misconoscimento in atto ha imposto i suoi divieti nei luoghi di cura, fino ad arrivare ad impedire, per legge, persino  la loro trasformazione.

Ma se questa fase “giacobina” della psichiatria in Italia per certi aspetti non si è ancora conclusa ( a Roma è stato oggetto di recenti diatribe un diverso utilizzo di alcuni ex  padiglioni del S.Maria della Pietà, fra l’altro collocati all’interno di uno splendido parco), cosa è successo invece dei pazienti che continuavano ad esistere e a manifestare il loro disagio fuori o dentro le mura ?

Potremmo tornare allora al paravento dietro il quale gruppi numericamente variabili di cosiddetti  “operatori” della psiche, dalle qualifiche più diversificate, hanno avviato un processo che dura a tutt’oggi, per quanto in parte si stia assistendo ormai ai suoi epigoni. Quel minimo baluardo nel reale ha comunque definito la necessità di uno spazio fisico all’interno del quale si avviasse un discorso che non fosse solo duale, come per la maggior parte dei casi tendeva ad avvenire, ma implicasse anche l’intervento di un terzo nel reale (l’equipe composita e varia di questi nuovi Servizi).  Nel suo proseguio la riforma ha dovuto necessariamente fare i conti con un ambito sociale che, per quanto orientato anche dalla cultura cattolica molto più radicata in Italia rispetto ad altri paesi e da una concezione sulla famiglia più disponibile e contenitiva, non mostra sempre tolleranza e rispetto per la diversità e l’emarginazione. Così  i malati di mente, trasformati in oppressi e cooptati nella “rivoluzione” sarebbero  poi ripiombati  nella loro ordinaria esclusione.

Ha allora inizio una fase nuova, forse la più feconda di questa riforma, ossia quello che potremmo chiamare il “trionfo della relazione oggettuale”. Si assiste infatti al fiorire sempre più vivace di iniziative “terapeutiche”  (soprattutto incentrate sulla famiglia, sicuramente messa a dura prova dalla necessità di interagire con malati gravi spesso senza possibilità di cure efficaci, anche a lungo termine ), come anche a “ supervisione di gruppo per operatori” , questa volta con il riconoscimento di un “consulente esterno” cui si riconosce autorevolezza e competenza (a differenza di quanto era avvenuto rispetto agli psichiatri del passato, compresa una personalità come quella di Mario Tobino che della psichiatria aveva fatto letteratura). Comincia ad affermarsi, infatti, lo smarrimento e l’angoscia diffusa  tra chi ha a che fare con “l’impossibile” della psicosi .

L’eventualità di un ricovero era diventata il principale “smacco” per l’operatore psichiatrico, quasi una colpa da riparare o comunque il segnale di un’incapacità nello stabilire “una buona relazione terapeutica”, forse  sulla scia della “madre sufficientemente buona “ derivata da Winnicott. Da qui l’avvio di “progetti terapeutici” di vario tipo, finalizzati in parte  “rimediare” un errore nella cura o comunque a sostenere pazienti, famiglie e soprattutto operatori in un percorso più che mai accidentato e pieno di incognite, sempre al di fuori dei consueti e forse più rassicuranti saperi della tradizione psichiatrica manicomiale.

Ma che tipo di sapere stava nascendo da questi gruppi eterogenei  di  persone che si erano trovate unite inizialmente da una logica di contrapposizione al passato, in tutte le sue forme, e poi dalla consapevolezza  di aver comunque intrapreso un viaggio nel mondo della psicosi, forse in maniera un pò ingenua ed  illusoria, ma spesso  con curiosità e passione,  da cui era comunque impossibile tornare indietro ?

Forse si potrebbe parlare di un discorso che si stava sviluppando parallelamente al diffondersi delle diverse teorie psicanalitiche anche nel contesto italiano e che tendeva a rimanere inizialmente sganciato da quello universitario (almeno nelle sue forme più tradizionali). Si è trattato di un periodo di vivaci scambi dialettici e di contrapposizione di teorie  in cui si tendeva a sperimentare sul campo qualcosa che implicava direttamente la soggettività di ciascun operatore il cui mandato di cura tendeva ad ignorare quando non a contrapporsi a qualsiasi appello alla sicurezza sociale.  Ci si è trovati quindi di fronte ad una grande opportunità di mettere in gioco il discorso psicanalitico nei Servizi psichiatrici, ma qualcosa di questo processo si è progressivamente esaurito nel corso degli anni, forse anche in sintonia con l’affermarsi di nuovi discorsi, come quello cognitivo-comportamentale, sempre più inserito anche in ambito universitario.

La fase attuale dell’applicazione della legge 180 appare molto composita se non confusa. Si è assistito ormai da alcuni anni al ritiro dal lavoro nei servizi pubblici da parte di molti psicanalisti che hanno rinunciato a teorizzare nuovi metodi di cura con gli psicotici, se non nell’ambito dei loro studi privati, con le limitazioni che questo comporta. Per chi rimane i margini di ricerca e di intervento sono sempre più incerti anche in relazione alle minori  risorse economiche disponibili e alle maggiori deleghe riguardo la sicurezza sociale che, paradossalmente,  vengono rivolte ai servizi medesimi con rinato vigore .  L’istituzionalizzazione, pressocchè impossibile fino a qualche anno fa, ora diventa “a termine” o “mirata” secondo “progetti di cura” presso strutture rigorosamente “private e/o convenzionate” (almeno nella maggior parte delle  regioni italiane) che presuppongono una forma di “guarigione” o, comunque, di pacificazione temporanea del malato (con scadenze prestabilite, secondo l’ottica che le cure vanno  distribuite tra tutti, ma per periodi limitati, indipendentemente da qualsiasi considerazione clinica).

Non si può dire, comunque, che l’esperienza sia conclusa, se non altro per la testimonianza quotidiana di una clinica che per certi aspetti si ripropone quasi identica al passato ( con i suoi fenomeni riconoscibili e le sue manifestazioni irriducibili anche di fronte ai trattamenti più innovativi) e per altri riflette i cambiamenti della contemporaneità cui aderisce come meglio non può fare la psicosi. Così i pazienti (che da “alienati” sono diventati “utenti”) continuano ad afferire  secondo le modalità più diversificate ai nuovi luoghi della psichiatria e a farne l’uso che questi consentono. Si tratta forse degli ultimi baluardi di un’era ormai tramontata o invece di una realtà che continua a promettere ulteriori sviluppi, forse non ancora del tutto soggiogata dal pensiero comune anche grazie alla fecondità (in tutti i sensi) del materiale di cui si intessono i discorsi degli stessi pazienti (e degli operatori cui questi si rivolgono) ?   Penso che la questione possa dirsi ancora aperta.

Bibliografia :

Note :

1)       “Manuale di psichiatria” di F. Giberti e R. Rossi (1983)

2)      “Le Bulletin Freudien” 98/32-pag.25

3)      Seminario  1955-56 : Le psicosi”“